Gl'italiani della Venezia Giulia
Questo testo è stato riletto e controllato. |
PROBLEMI ITALIANI
XX.
LUIGI BARZINI
GL’ITALIANI
DELLA
VENEZIA GIULIA
MILANO
RAVÀ & C. - Editori
1915
Nell’autunno 1913 allorchè i rapporti fra Austria ed Italia non erano turbati da alcuna grave minaccia, alcuni articoli di Luigi Barzini, sulle condizioni degli Italiani di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia pubblicati sul Corriere della Sera, destavano un’impressione profonda. Erano per molti la rivelazione della lotta tragica che gli italiani dell’altra sponda, soli, abbandonati a loro stessi, andavano combattendo per la difesa della loro latinità, contro la quale la monarchia ausburghese scatenava passioni e ostilità d’ogni fatta, per diminuirla, sopraffarla, travolgerla.
Quelle pagine, scritte da un giornalista di cui il pubblico ha sempre ammirato l’esattezza e l’obbiettività, meritano d’essere ristampate oggi nella loro quasi totalità, perchè non possono essere sospettate come creazione artificiosa a giustificare questa nostra guerra di liberazione.
L’EDITORE.
Il Luogotenente Hohenlohe, inaugurando l’esposizione Adria a Vienna nel maggio (1913) ebbe a dire che Trieste non appartiene a nessuna nazionalità. Questa affermazione basta ad illuminare i suoi intendimenti di governo. Negare la nazionalità italiana a Trieste è come negare la luce del sole. Il viaggiatore che arriva da certe regioni del regno d’Italia deturpate d’esotismo, vivendo a Trieste e nelle paesane città dell’Istria prova l’impressione di trovarsi a contatto di una nazionalità più pura, più schietta, più viva di quella che ha lasciato. L’italianità vi si compenetra tutta di un calore rovente di cosa percossa.
Se la statistica, la cui sincerità ufficiale non vogliamo mettere in dubbio, indica nelle sue cifre generali l’aumento della marea slava su quelle terre, la fisionomia e l’anima delle città sono finora immutate. La marea invade a preferenza i campi, mentre gl’italiani si mantengono compatti nei grossi centri. Nell’interno dell’Istria varie città sono già come delle grandi fortezze investite dall’invasione, ma verso il mare, ininterrottamente lungo le rive, dove si accumulano i tesori meravigliosi dell’arte, della cultura e della storia italiana, l’italianità è incontaminata, piena, generosa, ardente e fieramente combatte per la sua vita millenaria.
Dietro gli slavi invadenti gravita il peso di tutta l’immane massa slava dell’Impero con le sue organizzazioni sociali e finanziarie, con la sua sete di conquista. Dietro agl’italiani non c’è nessuno e non c’è niente. Essi sono soli col loro diritto. Ma non avrebbero nulla a temere per la esistenza nazionale se contro di loro non operasse tutta la formidabile macchina dei poteri politici, se verso di loro non si svolgesse l’ostilità di tutti gli organi dello Stato, se una artificiosa slavizzazione non avvenisse per volontà di Governo, se agli avversarî non fossero prestate tutte le armi della autorità, se ogni manifestazione d’italianità non fosse perseguitata come un crimine quasi che l’essere italiano fosse la più pericolosa forma di rivolta, se non si verificasse a danno degl’italiani una patente e continua violazione di diritti da parte di chi dovrebbe tutelare ogni diritto, se non si rinnovassero contro l’italianità sistemi di oppressione che noi credevamo non fossero più del nostro tempo.
Il programma confessato.
Che cosa si vuole? La stampa austriaca dei partiti dominanti lo dice senza ambagi e senza veli: far sparire l’elemento italiano in quelle regioni, come nella Dalmazia fu fatto sparire dalla «saggia politica» dei governanti. La stampa slovena lo ripete a gran voce. A Trieste stessa l’Edinost, organo sloveno, ha stampato: «Noi non desisteremo finchè non avremo sotto i nostri piedi, ridotta in polvere, l’italianità di Trieste. Non cesseremo finchè non comanderemo noi a Trieste, noi sloveni, slavi.» Il programma non è soltanto attuato ma è confessato e proclamato. Si è giunti alla fase brutale ed epica della lotta. L’italianità, che ha tutti contro, non vuol cedere, non vuol morire; sotto al possente ginocchio dell’impero essa trova forze incommensurabili di resistenza nella profondità della sua coscienza nazionale, nell’orgoglio del suo passato, nella speranza della salvezza. Da quindici secoli essa costituisce un baluardo della latinità, la difesa avanzata della civiltà romana, e non può venire distrutta senza che l’equilibrio delle razze si rompa e il flusso slavo passi dai confini etnici a portare il suo impeto sui confini politici del mondo latino.
Non è questa una lotta naturale di nazionalità. Si comprende che gli slavi premano e che gl’italiani resistano, ma abbandonato alle sue forme sincere tale conflitto non avrebbe mai rappresentato un pericolo per la italianità. Sono dodici secoli che gl’italiani e gli slavi si trovano a contatto senza che l’italianità sia mai stata minacciata, fino al giorno in cui il Governo austriaco pensò di adoperare gli slavi come un’arma per abbattere l’italianità.
Strano ritorno della storia! Un duca Giovanni, che governava l'Istria e Trieste in nome di Carlo Magno, non potendo domare i comuni latini, pensò anche lui di adoperare gli slavi, e incominciò a gettare sui territori comunali le prime tribù slovene, selvaggie e devastatrici. Ma gli slavi finirono per fermarsi ammirati e domati avanti alla civiltà italiana come avanti ad una fiamma, e vi si scaldarono. Simili al leone di Androclo, dopo il primo ruggito e il primo balzo, si avvicinarono sottomessi a chi doveva essere la loro preda. I piratae de Carsis divennero i coltivatori dei campi. In seguito, durante due secoli, Venezia ha chiamato slavi dalla Dalmazia, dalla Bosnia, dal Montenegro, per ripopolare l’interno dell’Istria, devastato dalle pestilenze e dalla malaria. Queste popolazioni gravitarono come satelliti intorno all’italianità che trasformava, fondeva e assorbiva tutti gli elementi slavi che i bisogni crescenti dei commerci chiamavano nelle città. Italianizzarsi fu l’ambizione degli slavi più autorevoli. La forza assimilatrice della cultura italiana irradiava lontano. La lotta attuale sarebbe sembrata inverosimile. Fu nel 1866 che essa ebbe inizio.
Il primo tentativo di snazionalizzare gli italiani risale ai 1848. Fu quando il sentimento della nazionalità cominciò a destarsi in Europa come allo squillo di una tromba apocalittica. L’italianità fu tra le prime a sorgere. L’Austria allora le lanciò addosso l’elemento tedesco, e Trieste fu invasa da funzionari, impiegati, agenti concessionari, fornitori tedeschi in sostituzione degl’italiani ai quali fu tolta ogni autorità. Un giornale di allora, rivolgendosi agli stranieri calati e importati a Trieste, scriveva queste parole, che oggi la censura non tollererebbe: «Viva a tutti! Pensate solo che questa terra è italiana, italiano il lieto mare che la confina, italiano l’animo nostro. Serbate in cuore il tesoro dei vostri affetti nativi che noi rispettiamo ed ammiriamo, ma voi frattanto rispettate il nostro amore d’Italia, perchè saremo sempre italiani. » I tedeschi però, che hanno un fondo sentimentale e speculativo, ammirarono troppo la civiltà del paese, finirono per amarlo e per lasciarsi assorbire. Divennero italiani. L’esperimento fallì. Occorreva una razza più rude, meno sensibile, primitiva, fanatica, che opponesse alla persuasione e alla seduzione della cultura italiana l’impassibilità marmorea di chi non capisce.
In un’epoca in cui il sentimento della nazionalità tedesca era appena in formazione e quello della nazionalità slava era imprevedibile, il Governo austriaco vide nello spirito di nazionalità italiano l’elemento di maggiore preoccupazione e combattè in esso il principio della nazionalità, non accorgendosi di favorire così il panslavismo, ben altrimenti pericoloso. L’anti-italianismo è rimasto una tradizione più o meno costante di governo, anche quando il principio della nazionalità si è affermato indomabile su tutto l’Impero. Il solco era tracciato. L’italiana doveva restare la cenerentola delle razze. Contro di essa persistono i livori e i rancori lasciati da tutto il rivolgimento politico dal quale l’Italia è sorta. E sebbene per gl’interessi della Monarchia sia ora più utile non combatterla, si seguita a combatterla con crescente e definitiva violenza per debolezza, perchè le nazionalità padroneggiami lo vogliono, perchè lo vogliono vecchie passioni, antipatie ed odi ereditari.
La sobillazione slava.
La persecuzione per mezzo degli elementi slavi cominciò appena l’Austria perdè Venezia. In quell’anno il Luogotenente Kellersferg scrisse che i più grandi interessi dello Stato consigliavano di favorire «nel modo più energico» gli elementi non italiani. La formula di governo per le provincie italiane era trovata.
Cominciò allora con la collaborazione del clero slavo, ferocemente avverso al pensiero italiano, la sobillazione delle masse slovene e croate, credule, ignoranti, bigotte — per le quali la prigionia del Papa sulla paglia è ancora un articolo di fede — contro gl’italiani. La sollevazione anti-italiana assunse subito una forma violenta, come tutte le sollevazioni di contadini, e nel 1867 delle bande slave armate, scesero per la prima volta in centri italiani della Dalmazia ed a Trieste, ferendo e uccidendo. Fu la dichiarazione di guerra. Non crediamo inutile risalire a queste origini, per mostrare quanto la persecuzione dell’italianità risponda fin dall’inizio ad un programma inesorabile.
Per comprendere la situazione attuale dobbiamo dare uno sguardo al passato. Non ci soffermiamo a dire con quali frodi, tre anni dopo, alle elezioni dietali del 1870, fu sconfitta l’italianità in Dalmazia, non raccontiamo i famosi scandali elettorali di Sini, il massimo distretto dalmata, dove la votazione fu prolungata per otto giorni perchè non si riusciva a raggiungere la maggioranza croata, dove le liste erano piene di morti, dove due compagnie di cacciatori tirolesi furono chiamate a scacciare con le baionette gli elettori italiani che, trattenuti dall’ostruzionismo, si ostinavano anche dopo otto giorni a voler votare, dove il presidente governativo della commissione elettorale fu sospeso telegraficamente perchè manteneva l’ordine ed evitava la frode, dove due impiegati governativi furono traslocati perchè avvisarono il commissario di polizia che si perpetravano irregolarità, dove lo spoglio e il computo dei voti si faceva nella abitazione del capo croato. Sono cose ormai antiche. Le varie elezioni che hanno dato la Dalmazia ai croati sono un crimine dì lesa civiltà. È però certo che da allora la lotta contro l’italianità non è stata in tutti i tempi combattuta con eguale asprezza.
Per qualche periodo è sembrato che un senso maggiore di equità o di stanchezza subentrasse ai primi furori, di fronte alla vitalità dell’elemento nazionale italiano. Ai luogotenenti implacabili come lo Jovanovich, sono succeduti uomini meno partigiani. Si sono avuti anche dei governatori italiani come il Pino, il Depretis, il Rinaldini, propensi talvolta ad una politica di tolleranza. Il conflitto con gli slavi continuava, ma senza troppe e brutali violazioni. Sì riconosceva anche alla nazionalità italiana qualche diritto a mantenere il suo posto, a vivere la sua vita sulla sua terra. Per vari anni il barone Rinaldini ha ritenuto che non fosse rigorosamente indispensabile essere italofobo per essere luogotenente di provincie italiane. Tuttavia negli ultimi tempi del suo governo egli sembrò ricredersi. E col suo successore Goess la persecuzione riprese — una quindicina di anni fa. Ma è sotto alla luogotenenza del principe Hohenlohe che, come se fosse sorta una imperiosa e nuova urgenza di slavizzare ad ogni costo quelle terre, tenacemente, ardentemente, disperatamente italiane, ogni indugio è rotto, e la violenza contro l’italianità è portata su tutti i campi, apertamente, senza tregua, senza pudori, col programma mostruoso, chiaramente espresso a Vienna di «far sparire l’elemento italiano» da regioni limpidamente italiane, creando una situazione nella quale pare di veder rivivere tutta una storia di lontane oppressioni.
Osserviamo prima di tutto quei fatti che ci feriscono direttamente, perchè rivolti contro agl’italiani sudditi di Italia, e l’occuparsi dei quali costituisce per noi non soltanto un diritto, ma un dovere.
I decreti luogotenenziali, che impongono al Comune di Trieste il licenziamento di tutti i regnicoli impiegati delle industrie municipalizzate, hanno sollevato un giustificato rumore nel campo internazionale perchè costituivano un atto, diciamo così, solenne. Ma il loro oggetto, cioè il licenziamento ingiusto di sudditi italiani da ogni sorta di aziende sulle quali possa gravare in qualche modo la volontà del Governo, è un fatto dei più comuni, che si compie in silenzio, nell'ombra, perchè la sua enormità non è sempre portata al giudizio del mondo dalla proclamazione d’un editto. Ai cantieri navali di San Marco e di San Rocco, d’industria privata sovvenzionata, tutti gli operai e gl’impiegati regnicoli sono stati licenziati. E non si tratta di una misura contro gli stranieri in genere, visto che capi-squadra e ingegneri germanici sono rimasti. Alla fine del 1911, anche al cantiere navale di Monfalcone, egualmente privato e sovvenzionato, fu imposto il licenziamento dei regnicoli rispettandovi tuttavia gli operai inglesi, germanici e di altre nazionalità. Gl’ingegneri italiani vi furono sostituiti con ingegneri venuti dalla Germania, La compagnia di navigazione «Istria e Trieste» ha dovuto licenziare nel 1912 i suoi impiegati regnicoli, e la stessa lettera di licenziamento rivelava l’imposizione. Calcolando le famiglie di queste migliaia di nostri concittadini messi alla porta, quante persone private di onesta risorsa per questo delitto: essere italiani!
Licenziamenti ed espulsioni.
Non passa giorno poi senza che due, tre, quattro sudditi italiani siano espulsi sotto ogni pretesto, ed anche senza alcun pretesto. Abbiamo una lista di varie centinaia di recenti espulsioni d’italiani, con le relative motivazioni, che costituisce un documento stupefacente. Qualsiasi contatto con la polizia è un motivo d’espulsione. Un vetturino italiano riceve una contravvenzione per eccesso di velocità? Espulso. Un italiano urta per caso un ufficiale che lo schiaffeggia e sguaina la sciabola? Espulso. Un italiano ha una discussione in un caffè per ragioni che nulla hanno a che fare con la politica? Espulso. Un regnicolo è stato espulso perchè aveva rimproverato acerbamente un giovane che si rifiutava di sposare sua figlia dopo di averla sedotta. Un suddito italiano, sensale di terreni e di stabili, è stato espulso perchè favoriva la vendita d’immobili d’oltre confine. Una vecchia friulana regnicola di settanta anni, che dalla giovinezza era occupata come lavandaia presso una signora, è stata espulsa per «misura d’ordine pubblico». Una compagnia italiana d’operette è stata espulsa perchè a Pola un fischio del lubbione ha accolto, durante una rappresentazione di Sangue viennese. la comparsa del soldato austriaco. Ma avremmo di che riempire dei volumi di citazioni, molte delle quali avrebbero un sapore comico se nella loro essenza non avessero il più doloroso dei significati.
Avviene che dei sudditi italiani siano provocati da sloveni, ordinariamente con la frase «andate a Tripoli»; se rispondono sono indicati alle guardie, arrestati, e, sotto l’accusa di perturbatori, espulsi — talvolta lo sono anche se non rispondono: basta che uno sloveno si dichiari insultato. Quando la giustizia proscioglie ed assolve da false accuse dei sudditi italiani e ne proclama l’innocenza, la polizia li reclama, li misura, li fotografa e li espelle come se niente fosse successo. Essa ha poteri speciali che le permettono di infliggere un po’ di prigione e di sfrattare senza giudizio per «motivi di speciale considerazione». Due marinai italiani accusati di furto da uno sloveno, riconosciuti innocenti, sono stati bertillonés ed espulsi. Il padrone di un trabaccolo, accusato di spionaggio, assolto, è espulso. Un italiano è stato espulso perchè il sindaco del suo paese ne domandava la presenza per una questione di famiglia. Che più?
I processi per spionaggio, per lesa maestà, per provocazione, contro nostri concittadini, fondati su futili motivi, sono innumerevoli. Nel luglio (1913) nove regnicoli erano in prigione per spionaggio. L’assoluzione, come abbiamo visto, non salva dall’espulsione. La polizia ha trovato un nuovo delitto: quello di avere avuto un processo. Esso le offre un vasto campo di attività anti-italiana. Si è stabilito un ufficio apposito per la ricerca di tutti i mandati d’arresto spiccati nel passato, anche il più remoto, contro sudditi italiani, e in base ad essi la polizia espelle anche quando è luminosamente provato che al mandato seguì un proscioglimento d’accusa o una assoluzione. Metodicamente la polizia ricerca presso le prefetture del regno i precedenti o semplicemente le note caratteristiche di tutti i regnicoli sui quali non trova niente da dire, e in ragione delle risposte, espelle. Così un bravo e rispettabile cittadino, da trent’anni impiegato presso una grande ditta commerciale, si è visto sfrattare per un piccolo furto boschivo commesso durante la sua adolescenza. Una condanna di analogo carattere è stata il pretesto di sfratto per un barbiere che da quindici anni lavorava a Trieste. Due ottimi e alacri operai impiegati in una ditta d’istallazioni elettriche sono stati espulsi perchè una questura aveva rintracciato di loro questa nota: «Dediti all’ozio e alle avventure galanti». Degli onesti cittadini sono stati sfrattati perchè il loro nome è stato ritrovato in vecchi elenchi di società sportive sciolte dall’autorità parecchi anni fa. Altri debbono l’espulsione al non aver chiuso bene una sera la porta del negozio, perchè ciò è causa di contravvezione.
Una quantità di operai sono espulsi per vagabondaggio appena arrivano, prima che riescano a riceve il «libretto di lavoro» senza il quale non potrebbero essere ammessi, per prescrizione dell’autorità, al lavoro al quale sono chiamati. L’enumerazione sarebbe troppo lunga, considerando che ogni mese da ottanta a cento regnicoli sono così sfrattati, e che in certi periodi la media delle espulsioni di cittadini italiani arriva a cinquanta alla settimana. La media annuale si mantiene sul migliaio, non calcolando le famiglie degli espulsi. Sono cifre terribilmente eloquenti.
L’agire della polizia.
La polizia agisce così perchè essa è uno dei più formidabili organi di persecuzione che si siano creati e messi in movimento contro l’italianità. In un paese dove l’elemento slavo è aizzato contro la massa italiana, in centri italiani, si è commessa questa iniquità: di formare una polizia stava, cioè nemica della popolazione. Nemica per razza, per interesse, per obbedienza. Gli agenti e gl’impiegati italiani sono stati sostituiti nella polizia con sloveni, salvo un’infima parte. Su cento guardie slovene, appena sette erano italiane, a Trieste. La parzialità è garantita. La polizìa onnipotente, che penetra per tutto, che s’ingerisce di tutto, che domina tutto, che può far tutto, adopra la sua forza a combattere l’italianità. Immedesima il suo odio al suo dovere. Ogni agente è un poliziotto al servizio d’uno sloveno.
Quando gli sloveni provocano, le guardie li difendono. Se gl’italiani protestano, le guardie li assaltano. In questi giorni abbiamo visto che a Trieste si può gridare impunemente: «Abbasso l’Italia», ma non si può gridare «Fuori gli slavi», senza provocare quella manovra collettiva di guardie, che la polizia nel suo gergo chiama Sturm ohne Pardon — cioè assalto senza pietà. La brutalità della polizia slovena è indefinibile. Abbiamo visto lanciare le sciabole ai cittadini che non potevano essere raggiunti. In ogni conflitto, in ogni diverbio fra italiani e slavi, sono arrestati gli italiani, mai gli slavi. Sarebbe strano che così non fosse. Nelle recenti dimostrazioni di Trieste i gruppi slavi venivano protetti dalla polizia schierata con loro contro la indignazione del popolo. Una comitiva di provocatori sloveni prese a sassate il caffè Puntigham, colpì una famiglia tedesca che vi si trovava, spezzò dei lumi, e fu arrestato un giovane cameriere italiano che per difendersi aveva gettato contro gli assalitori la birra rimasta in fondo al bicchiere. È un sistema che ha esempi tipici: una banda di sloveni avvinazzati assalì una sera la scuola italiana di Santa Lucia, presso Pirano, gridando ingiurie ignobili; il maestro, che cenava a casa sua, nell’edificio scolastico, dopo aver lungamente taciuto, si affacciò invitandoli a lasciarlo in pace con queste parole precise: «Andè via, lassène, qua semo a casa nostra!» — e fu arrestato e processato per provocazione di tumulti. La polizia è slovena prima di essere polizia.
Non c’è ricorso possibile contro le violenze e le vessazioni della polizia. Un italiano, che ebbe l’ingenuità di andare a reclamare per essere stato ferito da una guardia durante una dimostrazione, fu arrestato come dimostrante. Perchè ogni dimostrazione d’italianità, anche la più modesta, è un crimine. Tutte le nazionalità dell’Austria possono sfoggiare i loro simboli, i loro colori, le loro bandiere, meno l’italiana. Neppure i regnicoli non hanno diritto a mostrare una bandiera, una coccarda, un nastro, mentre bandiere germaniche sventolano ad ogni festa tedesca, e gli sloveni issano liberamente i colori slavi, che sono anche quelli serbi.
L’odio al tricolore italiano arriva a delle forme grottesche. Nel luglio scorso il direttore della finanza ha obbligato i suoi impiegati a far cambiare i colori di una casa, costruita per conto degli impiegati dello Stato: la casa era bianca, con un fascione verdastro, e il tetto nuovo era rosso. Ad una canzonettista è offerto un paniere di fiori per la sua serata? Il commissario di polizia si precipita e sequestra il paniere perchè vi sono dei fiori rossi, che con altri bianchi e con il verde delle foglie formano un insieme terribile. Una signora si maschera da Tosca ad una festa, ed è brutalmente tratta in arresto perchè dei nastri verdi, bianchi e rossi ornano il suo alto bastone. A Trieste, in carnevale, è rigorosamente proibito il lancio delle serpentine, perchè una volta dei giovani appartenenti ad una società italiana gettarono delle serpentine che avevano i colori abborriti: i giovani sono stati puniti, ed anche le serpentine. In una festa di beneficenza di regnicoli furono strappate dagli occhielli le coccarde nazionali. Una signora vestita di bianco non può portare un fiore rosso se ha qualche foglia attaccata al grembo. A Rovigno, un italiano è stato processato e condannato perchè la sua barchetta era verniciata di bianco, col bordo verde e la chiglia rossa...
Citando fatti pare di rimpiccolire le cose. È difficile dare un’idea di questa immensa e costante offesa al sentimento italiano la quale prende pretesto dai colori, dai nomi, dalla musica, da tutto. Un nuovo albergo di puro stile veneziano, di Trieste, non ha potuto chiamarsi Albergo Venezia; ha dovuto dirsi Bristol. Un caffè che voleva intitolarsi a Carducci si deve chiamare Caffè Nuova York: Carducci sconta l’odio che la polizia slovena ha per la nostra cultura.- Si è proibita l’affissione di un manifesto della federazione degl’insegnanti italiani perchè incitava alla propaganda della cultura italiana, mentre si è permesso a Trieste un congresso di insegnanti slavi. Alla Lega nazionale italiana, legalmente costituita per l’incremento dell’istruzione, si proibisce di fare una lotteria per raccogliere fondi per le sue scuole, mentre si permettono sempre le lotterie delle Società nazionali slovene e tedesche. Di tanto in tanto si sequestrano qua e là i fiammiferi e le piccole cose che la Lega nazionale vende a suo beneficio, e si minaccia di togliere la patente ai tabaccai che ne fanno smercio.
Un capitolo infinito.
Il capitolo «proibizioni,» è infinito. Molte sono bizzarre. A Parenzo si è proibita la cinematografia della battaglia delle due Palme. A Pola si è proibita la cinematografia degli ascari a Roma. Si sono proibite a Pola le rappresentazioni di un circo equestre italiano. L’Ernani è un’opera interdetta. E non è la sola. Anche le rappresentazioni del Nabucco, dei Lombardi, dell’Attila, sono proibite. E poiché si è scoperto che dei cittadini in casa loro osavano ascoltare al fonografo questa musica troppo italiana — e Dio sa con quale struggente emozione — la polizia ha fatto un sequestro generale, presso un grande magazzino fonografico di Trieste, di tutti i dischi criminali. La condotta dei fonografi è sorvegliata. Un bimbo di cinque anni, a casa sua in Trieste, mise in moto un fonografo che suonò l’inno di Garibaldi: e la polizia arrestò, e la giustizia processò il padre del bambino, un italiano del regno. L’Ambasciata italiana, che credette ad un equivoco, chiese amichevoli spiegazioni e il Governo austriaco confermò freddamente il fatto. Sembra che vi sia una musica che passa come un rintocco di campana attraverso le muraglie vibranti delle case fino alle orecchie della polizia, poiché i procedimenti per delitti musicali commessi entro le chiuse pareti domestiche non sono troppo rari. La musica proibita è tanta!
Non solo la marcia reale, l’inno di Garibaldi, l’inno di Mameli conducono dritti alla prigione, ma anche l’innocente inno a Tripoli è fra le composizioni proibite. Perchè lo sono in realtà tutti i canti, tutte le poesie, tutte le espressioni di vita italiana che dicono qualche cosa, bene o male, all’anima della razza. Si cerca così di troncare tutte le file del sentimento, ogni tenue legame, intorno a questo solido e fiero nucleo d’italianità che si vuol far sparire: si tenta di togliergli ogni nutrimento spirituale, di isolarlo, come si tagliano tutto intorno le radici alla pianta che si vuol far morire.
Come si paralizza la vita.
Il pensiero italiano è un sorvegliato speciale della polizia. Un conferenziere italiano non può parlare se non presenta alla polizia il testo del suo discorso e non ne riceve l’approvazione, qualunque sia l’argomento. Chi improvvisa non ha il permesso di farlo, nemmeno in privata riunione, anche se intende di parlare di Wagner, Appunto «Wagner» l’«Infanzia», «Bismarck», la «Sicilia», sono titoli di conferenze italiane che la polizia triestina ha proibito. Inutile dire che gli slavi di qualunque provenienza hanno libertà di parola, specialmente se parlano contro l’italianità. Un giornale sloveno può predicare liberamente il boicottaggio agl’italiani, ma un giornale italiano è sequestrato se dice qualche cosa che possa anche lontanamente sembrare un incitamento a boicottare gli slavi. Non è nemmeno il caso di dire che vi sono due pesi e due misure: vi è un peso solo, schiacciante, una misura sola, che trabocca.
Ma è inutile continuare l’enumerazione delle vessazioni della polizia. Non ricorderemo che mentre a Praga si permettono gl’immensi convegni ginnastici della gioventù slava, a Trieste ogni gara sportiva, ogni festa atletica, ogni concorso ed ogni corsa sono proibiti alla gioventù italiana. Non raccontiamo dei reiterati scioglimenti delle più innocue società italiane, come la società ginnastica che ha il torto di essere grandiosa e di riunire tre mila soci, sciolta tre volte: l’ultima per aver partecipato alle onoranze funebre di Verdi. L’accusa di «attentare al nesso dell’Impero» sorge grave di conseguenze per minimi fatti o per vaghe parole. L’alto tradimento può esser scorto in una passeggiata sportiva. La lesa maestà viene rintracciata nel modo di attaccare un francobollo, o in una innocua frase come quella di un povero diavolo che malmenato da un doganiere gli disse: In malora ti e chi te mantien. Dei giovani italiani ingiustamente imprigionati ebbero la grazia sovrana, concessa prima del giudizio perchè non si trovava niente contro di loro e non si voleva confessarlo: essi insisterono per venire processati e seppero che rifiutare la grazia è delitto dì lesa maestà. La prigione preventiva è un mezzo comune per punire senza processo. Il carcere è inflitto per il più futile atto, come quello di un giovinetto italiano che durante una manovra militare disse: «un due. un due». Ma tutto ciò che abbiamo narrato è niente. Rappresenta la parte più visibile e più urtante dell’azione della polizia slovena contro l’italianità, ma non la più dannosa.
Bisogna tenere in mente che, mentre negli altri paesi civili i cittadini possono fare tutto, salvo quello che è espressamente vietato, nelle provincie italiane dell’Austria i cittadini non possono far nulla, salvo quello che è espressamente permesso. Non si può esercitare un’industria, un commercio, una professione, un mestiere senza ottenere dall’autorità un esplicito permesso, una patente, un certificato, una licenza, attraverso tutto un macchinario burocratico, con petizioni, moduli, bolli, visti, dichiarazioni. Non vi e occupazione modesta, non vi è lavoro umile che non richiedano autorizzazioni. Tutte le forme di attività umana hanno bisogno di un beneplacito. Nel resto dell’Austria, questa funzione eccessivamente tutrice dell’operosità cittadina è affidata alle autorità comunali, in virtù delle così dette «attribuzioni delegate» per le quali i municipi sono incaricati di varie mansioni concernenti la leva militare, l'esazione delle imposte e gli affari industriali con il relativo rilascio di patenti e certificati. Così era anche a Trieste fino a quattro anni or sono, quando il programma anti-italiano, svolgendosi con la fatalità della vite che stringe, fece un rude passo avanti, e le attribuzioni delegate furono abolite per la città di Trieste.
Naturalmente si misero degli slavi a reggere gli uffici che sbrigano queste funzioni, e che erano prima in mani italiane, proseguendo così nella slavizzazione degl’impieghi, e la concessione dei permessi di ogni genere scivolò nelle mani della polizia slovena. La polizia ha in pugno la sorte di tutti, presiede invisibile a tutte le manifestazioni della vita civile. Non un certificato e concesso senza il nulla osta della polizia. Gl’italiani che chiedono di esercitare una professione, di aprire un negozio, di darsi ad un commercio, vedono prolungarsi per anni una via crucis di pratiche burocratiche, le quali quando sono esaurite — poiché tutto si esaurisce a questo mondo — conducono spesso ad un diniego «per speciali considerazioni» mentre gli sloveni subito ricevono quello che domandano. Da una parte si paralizza, dall’altra si favorisce.
Un’antica contravvenzione, l’avere appartenuto a società disciolte, essersi mostrati troppo italiani sono barriere insuperabili non soltanto per darsi alle carriere degl’impieghi pubblici, ma anche per ottenere il diritto di commerciare e lavorare. I regnicoli poi, a meno che non siano operai già ingaggiati o che risiedano da molti anni sul luogo e occupino una situazione vecchia, non possono arrivare a ricevere un certificato che li abiliti ad esercitare la loro professione. Quando nulla si può obbiettare contro di loro, sono trascinati attraverso i più tortuosi meandri del funzionarismo, debbono cominciare dieci volte il giro per un timbro che manca, per un bollo rosso che deve essere bleu, per una vidimazione che non è formale, per una perizia che non è legale, finché abbandonano la partita o arrivano al diniego. I casi sono innumerevoli.
E non si tratta sempre di professioni importanti: un povero barbiere gira da tre anni per avere il certificato che gli permetta di aprire un negozio; un manovratore di cinematografo non è stato neppure ammesso all’esame necessario per l’abilitazione — ci vuole l’esame per tante cose — e la ragione è stata detta chiara e brutale: la sudditanza italiana. Vi sono certe patenti di numero limitato che si possono comprare da chi le ha avute prima, come quelle per i caffè, i restaurants, le birrerie, ma se un italiano le compra l’esercizio è chiuso per «misura d’ordine pubblico» oppure la patente è ritirata senza spiegazioni. Gli sloveni hanno la strada spianata sui cadaveri di interessi italiani uccisi a uno a uno.
Meno clamorosa, meno appariscente delle altre, quest’opera italianofoba della polizia prosegue giorno per giorno, ora per ora, senza urti, paziente, sistematica, sicura, implacabile, difesa da una rete di procedure, di regolamenti, di leggi capziosamente interpretate, e penetra per tutto, immobilizza, chiude, stringe, soffoca, a grado a grado, impercettibilmente, quelle attività e quegl’interessi italiani che cadono nel raggio del suo lungo e lento gesto. Con questo potere la polizia spesso impedisce quello che non può proibire. Negando o non concedendo le patenti necessarie per la rivendita, essa ferma la circolazione di periodici e di giornali italiani che nessuna interdizione colpisce. Potrei citare varii casi, scelgo il più significativo: a Trieste non si sono dati permessi di rivendita per il Corriere dei Piccoli, il giornale più difficile a sequestrare che sia al mondo. Ma è uno strumento di educazione italiana.
Una formula di Governo.
Poichè l’eliminazione dell’elemento italiano è divenuta formula di governo, alla mentalità dei funzionari austriaci l’italianità non è più che un abuso da sopprimersi a beneficio degli slavi autorizzati. Fissandosi in mente questo concetto ufficiale di contrabbando, d’infrazione alle volontà superiori, di contravvenzione alle tendenze statali, col quale viene considerata l’italianità da parte delle autorità e della burocrazia slava, si afferra la logica dei fatti. Tutto si spiega. Si capisce come si sia potuto mettere sotto processo un povero i. r. impiegato giudiziario accusato di aver fatto battezzare sua figlia in italiano e di averla chiamata Mafalda, e non ci stupisce che il tribunale l’abbia condannato e nemmeno che la Suprema Corte di Cassazione di Vienna abbia confermato la condanna. L’aver diretto un concerto italiano ha procurato ad un impiegato un procedimento disciplinare, nulla di più chiaro. Tutta una nuova categoria di offese punibili sorge allo spirito. Anche le glorie italiane sono illegali, visto che non esistono sulle storie approvate dalla censura, ed è naturale che un capitano distrettuale abbia fatto svellere il leone di San Marco dalle mura di Monfalcone, con l’approvazione del Luogotenente, per stabilire che il passato è proibito per ordine superiore.
Ai funzionari italiani è stata chiusa ogni carriera; essi sono saltati nelle promozioni, liquidati, dispersi. A Trieste non vi sono quasi più impiegati governativi italiani, salvo nei subalterni dove rappresentano l’1.25 per cento. Persino i portalettere sono slavi, slavo è il direttore della posta, e i concorsi per tanti impiegati non sono nemmeno più annunziati nelle stesse provincie italiane alle quali gl’impieghi sono destinati. Non si salva nemmeno la forma. Il concorso per i posti di ingegneri della luogotenenza è stato un mistero per gl’italiani, e i posti sono stati dati a sei boemi.
Gli sloveni della regione con la migliore volontà non potevano fornire tutti i funzionari necessari, e il Governo ne ha presi da Praga, da Lubiana, da Gratz; ogni paese è buono purchè slavo. È regola costante nell’amministrazione austriaca che gl’impiegati conoscano perfettamente la lingua della regione alla quale sono destinati, ma trattandosi di slavizzare si deroga da questa consuetudine per gli impiegati destinati alle terre italiane. Di modo che in certi uffici, come al Catasto, si slavizzano per deficienza ortografica anche i nomi delle località e delle persone.
La sostituzione degli slavi agl’italiani in tutti i dicasteri dello Stato, e fuori fin dove può giungere la volontà governativa, ha non soltanto lo scopo d’influire e di pesare direttamente sulla vita italiana con tutti gli organi e l’azione del potere, ma anche di formare nuclei di popolazione slava che s’incastrino nella massa italiana delle città, che s’insedino materialmente compatti in certi quartieri, per costituire dei centri d’interessi e di attrazione agli slavi di fuori, i quali sono protetti in ogni loro inizio. Non è un’immigrazione, è una importazione. In un sol colpo, due anni fa, settecento Famiglie di ferrovieri sloveni furono concentrate nel quartiere di San Giusto a Trieste — tre o quattro mila persone — e quattrocento famiglie di ferrovieri sloveni vennero stabilite a Gorizia. Si cerca di evitare la dispersione degl’invasori nella popolazione, perchè la cultura italiana ha troppa potenza di fascinazione e di assorbimento; si creano aggruppamenti che resistano e che crescano nel corpo dell’italianità come tumori fino ad ucciderla.
Questi procedimenti danno alla lotta degli aspetti strategici; sono delle prese di posizione; costituiscono degli attacchi che possono venire segnati sulle carte come i movimenti d’un nemico; l’offesa e la difesa assumono la forma palpitante di una battaglia combattuta; le città sono piene di quella risoluzione guardinga di chi aspetta la sorpresa; tutti si chiedono quale sarà il nuovo colpo. L’invasione risponde a dei calcoli elettorali; è intesa a portare squilibri nelle forze di certe circoscrizioni. Un anno di permanenza dà diritto al voto. L’assolutismo sarebbe una salvezza garantita, ma la tirannia di un sistema rappresentativo come quello austriaco si presta ad ogni violenza.
Esso permette di snaturalizzare apparentemente delle regioni con lo spostare i confini di una giurisdizione. Spieghiamo il fatto. Dalle origini della storia gli italiani abitano le regioni costiere e da dodici secoli essi confinano con gli slavi. Il popolano istriano dice anche oggi «Imperio» all’interno, mantenendo per tradizione l’antica linea di divisione fra la sua terra italiana ed il paese interiore. Per bilanciare, e col tempo soverchiare, l’italianità purissima delle città e della campagna costiera, si sono create delle giurisdizioni artificiose, che aggregano vaste porzioni di territori abitati da slavi a pezzi di città. Ogni distretto elettorale della città di Trieste, per esempio, ha annessa una larga zona di campagna slovena che dovrebbe far parte di altri centri comunali. Per schiacciare l’italianità di Zara, quando fu dato il suffragio universale, nel 1907, alla città furono annessi tanti distretti croati da costituire il più vasto collegio elettorale della Monarchia Austro-Ungarica, con circa 20.000 elettori, mentre in Austria numerosi collegi non hanno 2000 elettori. I limiti naturali delle giurisdizioni dati dalla terra, dalla razza, dalla storia, dagli usi, ed anche dai concetti amministrativi delle autorità austriache in tutte le altre parti dell’impero, sono violati nelle provincie italiane.
Statistica menzognera.
È per questo che le statistiche conferiscono spesso una impressione completamente falsa sulla popolazione dei luoghi, perchè riferiscono a località italiane cifre e dati che abbracciano anche vaste zone che non furono mai etnicamente italiane. Per tanti centri, per la statistica si crederebbe la slavizzazione già avvenuta, e nulla vi è di mutato nella composizione fondamentale del popolo, più italiano che mai. La massima parte degli sloveni attribuiti a Trieste non stanno a Trieste. L'italianità non è finora contaminata sui luoghi ma sulla carta. Ognuno comprende però l’importanza di questi artificiosi spostamenti di cifre quando si pensa alla loro influenza elettorale, la quale tende va formare delle maggioranze slave perchè nei paesi italiani possano insediarsi amministrazioni slave, provinciali e comunali, che tolgano all’italianità ogni forma di vita pubblica, ogni voce, ogni diritto. Sotto questo punto di vista bisogna anche considerare il valore della forzata importazione di slavi che compiono il governo e chi interpreta i desideri del governo.
Essa è lenta e continua. La guerra feroce, fatta ai regnicoli non è soltanto uno sfogo di brutale antipatia, ma un mezzo per rendere vacanti dei posti che slavi dell’interno possano occupare; si cerca di chiudere la strada alla immigrazione italiana attirata dal lavoro, perchè si formi un vuoto di mano d’opera che attiri braccia e attività slovene e croate.
Quando il nuovo porto di Sant’Andrea a Trieste si è aperto, gli slavi hanno tentato d’impossessarsene facendo scendere una banda di contadini sloveni che vi sarebbe stata esclusivamente impiegata, se una insurrezione di braccianti italiani non avesse consigliato a soprassedere. Quando il popolo sloveno ha bisogno di qualche nuova istituzione nazionale, non è nel suo paese che viene eretta, come sembrerebbe logico, non è nella Carniola, non a Lubiana, ma è in città italiana.
Recentemente gli sloveni si sono accorti di potere avere un ginnasio sloveno. La grammatica slovena è nata e si è formata da poco, e la lingua slovena, primitiva, mancava finora di una terminologia sufficiente per gli studi secondari (questa è la civiltà che viene opposta all’italianità) di modo che scuole superiori slovene avevano bisogno di usare la lingua tedesca; oltre le elementari, le scuole erano perciò slovene-tedesche. Ora i progressi fatti sono sembrati sufficienti per emancipare il virgulto sloveno dal sostegno tedesco, e un ginnasio puramente sloveno sorge. Dove? A Gorizia. Come un ginnasio croato è sorto a Risino; come una scuola magistrale sorge pure a Gorizia, per creare artificialmente delle correnti d’infiltrazione, per formare dei focolai slavi, per allacciare degl’interessi anti-italiani in centri italiani, per insinuare una punta di cuneo nelle membra più vive dell’italianità. E sono 65 anni che non si trova il posto per una università italiana, che fin dal 1848 la Commissione Direttiva del Municipio di Trieste chiedeva al governo, ritenendola indispensabile.
Ma l’opera di sopraffazione non si limita a quello che abbiamo esposto. C’è ben altro. Conseguenze più dolorose ha la violenta slavizzazione della giustizia. I tre tribunali esistenti a Trieste, e cioè quello provinciale, quello commerciale e quello di appello, sono tutti e tre presieduti da magistrati slavi. I giudici italiani, saltati nelle promozioni, sono pensionati e sostituiti con slavi. Proprio in questi giorni due degli ultimi italiani rimasti nella magistratura sono stati messi a riposo. Fino nel personale subalterno la giustizia si fa slava. Degli avvocati slavi sono arrivati dall’interno e si sono messi all’opera. E mentre la legge non ammette che i tribunali di Trieste siano bilingui, le lingue slave vi hanno usurpato una posizione minacciosa.
Gli slavi che vivono nei territori italiani, ed anche più in là, parlano correntemente la lingua del paese, tanto è vero che anche nelle dimostrazioni non gridano che in italiano, e che nella Narodni Dom, la sede della agitazione slovena, si sono dovuti affiggere tanti cartelli con su scritto: «È proibito di parlare italiano». In tribunale, fino a pochi anni fa, se per caso un imputato o un testimonio slavo non conosceva l’italiano, si chiamava l’interprete. Cominciò un presidente slavo a non chiamare più l’interprete ed a tradurre lui stesso. Poi finì col non tradurre più ed a pretendere che gli avvocati italiani capissero. Poi venne di regola che tutti gli slavi fingessero di non sapere l’italiano. I dibattiti in sloveno e in croato dilagano, anche quando non vi partecipa di slavo che un perito, salvo a trasformarsi improvvisamente in italiano se l’utilità della discussione lo consiglia, come se la conoscenza dell’italiano sopraggiungesse per virtù divina. Manifesti giudiziari in sloveno, hanno vita contro la legge stessa.
La giustizia.
L’invadenza dello sloveno nel campo della giustizia ha conseguenze che vanno oltre alla offesa e alla sopraffazione. In un paese dove tutti capiscono l’italiano e pochissimi lo slavo, l’uso della lingua slava nei tribunali viene a formare un monopolio. Per poco che entri in una causa l’interesse o la persona di uno slavo, tutti gli avvocati italiani, che formano la quasi totalità nel foro triestino, sono disarmati di fronte ad una deposizione o ad un atto o ad una discussione in lingua ignota. Gli strumenti della difesa legale della popolazione sono in parte paralizzati a beneficio degli avvocati slavi. Data la situazione, per una quantità di processi essi debbono essere preferiti, e concentrano nelle loro mani una mole sempre maggiore di affari e d’interessi. La persuasione pubblica, giusta o ingiusta ma vera, di una parzialità della giustizia, crea un fosco prestigio all’avvocato slavo. Inoltre lo studio dello sloveno è così imposto alle categorie di persone che hanno contatti professionali con la giustizia. Quello che sembrerebbe una ostilità linguistica, è in realtà un formidabile mezzo di penetrazione, di accaparramento, d’imposizione, di oppressione.
Rimaneva nel campo giudiziario una istituzione che sembrava inattaccabile, quella dei giurati. Vi era questo tribunale di giudici cittadini la cui snazionalizzazione sembrava impossibile. Ma la giustizia tutto può, quando vuol essere ingiusta. Con un allargamento di circoscrizione giuridica si è riusciti a portare nelle liste dei giurati un’alta percentuale di slavi, e con una interpretazione tortuosa della legge si sono potuti scegliere i giurati con una proporzione del 75 per cento slava. È vero che la cosa ha sollevato indignate proteste e che una prima nomina è stata annullata, ma il sistema persiste. La legge dice di scegliere a preferenza «coloro che per assennatezza, probità, retto pensare, fermezza di carattere e, dove parlasi più linguaggi, a conoscenza delle lingue, danno affidamento, ecc.» e di tutte queste qualità non se ne considera che una, l’ultima, nominando a giurati degli slavi anche quando notoriamente mancano loro molte delle altre. Il che dimostra del resto una volta di più, come gli slavi, sia pure delle più umili condizioni, conoscano l’italiano.
Anche il tribunale commerciale resisteva alla slavizzazione, in virtù degli «assessori mercantili», ossia di giudici profani proposti dalla Camera di Commercio e nominati dal Ministero. La Camera di Commercio proponeva come più idonei dei commercianti italiani, ma il Ministero, violentando la legge, nomina per conto suo anche degli slavi. Così nella Commissione di avvocati che esamina i giudici, il Ministero nomina degli slavi derogando, dalle proposte della Camera degli avvocati. Lo slavo viene incastrato per tutto, e talvolta contro le più esplicite disposizioni legislative.
Quale valore intrinseco abbia poi questa giustizia noi non vogliamo discutere. Osserviamo pero che nella spietata lotta verso l’italianità essa porta un grande tributo. Gli abusi della polizia, le violenze, le brutalità, le vessazioni, le iniquità contro gl’italiani, non sarebbero possibili se la giustizia non vi ponesse l’approvazione delle sue sentenze, se essa non cercasse nella legge la loro giustificazione, se essa non respingesse i ricorsi, dimostrando la solidarietà dei poteri in un sistema di persecuzione nazionale. La legislazione austriaca che nulla abroga del passato, è così complessa e così elastica, e lascia tali libertà alle autorità politiche che spesso l’arbitro vi si può muovere senza urtarne i limiti. I magistrati compiono normalmente la funzione degli ulema nel mondo musulmano, i quali, come si sa, hanno l’incarico di rinvenire nei testi sacri il versetto che calzi alla circostanza, la parola che metta d’accordo il Corano e qualsiasi atto del Padiscià. La giustizia trova nei codici l’approvazione di tutto: sequestri, proibizioni, scioglimenti, arresti.
I tagli più ingiustificabili della censura sui giornali italiani, ricevono l’invariabile appoggio di una sentenza di tribunale. La giustizia ritiene fra le sue funzioni quella di togliere la parola alla stampa italiana, se in questa parola si può intravvedere un rimprovero o un rammarico. Il silenzio è imposto con tanta frequenza, che l’Indipendente di Trieste ha potuto solennizzare nel 1913 il suo 1110 sequestro. Non v’è cautela di linguaggio e delicatezza di forma che basti per salvare il pensiero dai rigori dell’autorità, quando il pensiero è in troppo chiara difesa dell’italianità. È su quello che si compie contro l’italianità che si prescrive il silenzio.
L’imposizione del silenzio.
Il giornale italiano deve parlare in sordina, dire e non dire — piuttosto non dire. E non basta neppure questo, perchè il Piccolo è stato una volta sequestrato per i puntini che seguivano una frase incensurabile di D’Annunzio. Il tribunale sentenziò che sulla frase non v’era nulla da eccepire, ma che i puntini permettevano al lettore d’immaginare al loro posto un pensiero sovversivo. È un nuovo principio giuridico. Altre volte il Piccolo, essendo stato sequestrato, ha fatto scalpellare dal piombo della stereotipia le frasi censurate, per non perdere tempo a ricomporre la pagina, ed è stato risequestrato a cagione degli spazi bianchi lasciati dalle frasi scomparse. Perchè, dicevano le sentenze, gli spazi bianchi costituiscono una protesta.
Nessuna legge austriaca permette questi abusi, ma per colpire l’italianità si può violare la legge. Le più miti ed esatte narrazioni di cronaca sono spesso sequestrate col pretesto che cadono sotto l’articolo 300 del Codice penale, il quale punisce la narrazione dei fatti «non veri» diretta a suscitare dispregio per le autorità. I giornali offrono sempre al tribunale la prova dei fatti narrati, che è invariabilmente respinta. Così in occasione delle ultime dimostrazioni di Trieste, anche le più blande e succinte cronache dei giornali italiani sono state sequestrate perchè potevano lasciare intravvedere la brutalità della polizia, e solo l’Indipendente s’è salvato raccontando che le guardie erano gentilissime, che per colmo di cortesia parlavano persino in francese, ma che tenendo per caso le loro mani tese e chiuse a pugno, dei cittadini sbadati vi urtavano contro violentemente facendosi male. Il sequestro, quando qualche cosa di importante è in discussione, avviene automaticamente, per una frase qualunque scelta a caso; i giornali sono spenti uno ad uno come delle candele. Le redazioni sanno benissimo quando sta per arrivare un sequestro, non per quello che hanno scritto ma per quello che è successo. Si sopprime la discussione.
È eccezionale che si proceda per reato di stampa, perchè sarebbe giudicato dai giurati che coscenziosamente riconoscerebbero l’innocenza. Vien scelto sempre il così detto procedimento soggettivo, il quale non colpisce lo scrittore ma il giornale. E si cerca di rendere ii sequestro più dannoso annunziandolo solo quando la tiratura è completa. Allora la polizia arriva con dei furgoni e si carica l’edizione intera. È inutile ricorrere contro le sentenze di sequestro anche le più assurde. Se il tribunale per caso ne ritira una, la Corte d’appello la conferma. Non c’è niente da fare.
Tanti sequestri capitano perchè il giornale ha commentato favorevolmente l’assoluzione di italiani ingiustamente accusati d’alto tradimento o di lesa maestà, o di attentato al «nesso» dell’Impero: quando vi è ricorso della procura di Stato non si può parlare che in senso favorevole all’accusa. È proibito parlare, anche in succinto, di argomenti colpiti da sequestro, ed un sequestro seppellisce così qualunque fatto. L’autorità ha un diritto di rettifica; il giornale deve stamparla, e non può dire nulla che contrasti con le affermazioni che sono in essa contenute. Recentemente la polizia, in forza di questo diritto, ha pubblicato che non è vero che nella nota dimostrazione gli sloveni sono arrivati sotto al Consolato italiano a gridare «Abbasso l’Italia»; e mentre tutti sanno che è sacrosantamente esatto, la rettifica ufficiale suggella la verità.
Vi è stato persino un periodo in cui il Piccolo era obbligato a stampare nelle sue colonne della propaganda slovena, per l’abusiva interpretazione di un altro diritto di rettifica, con il quale qualunque cittadino che si senta leso dalla pubblicazione di dati di fatto inesatti, può imporre una smentita con altrettanti dati di fatto, lunga fino al doppio dell’articolo dal quale trae origine, da stamparsi nella stessa parte del giornale e con gli stessi caratteri. Una sentenza di Tribunale obbligò il Piccolo a considerare come rettifiche legali delle lunghe apologie slovene che pretendevano rispondere ad articoli del giornale, ed a stamparle. C’è della derisione e dell’oltraggio. È come essere costretti ad aprire la propria casa ai nemico perchè vi spadroneggi e vi porti l’espressione più offensiva e beffarda del suo odio. E bisogna tacere.
Il giornalista onesto che vede, che sa, che sente, deve vivere laggiù quell’atroce sensazione di chi nell’orrore dell’incubo vuol gridare disperatamente aiuto e si accorge che non ha voce.
Due pesi e due misure.
Il giornale italiano in Austria, vive sotto la mira costante dell’arbitrio. Deve spesso ridursi a riportare dai giornali viennesi delle corrispondenze su fatti di cronaca locale, che non potrebbero essere raccontati direttamente senza la salvaguardia di un titolo di giornale austriaco. L’opinione pubblica italiana non deve essere illuminata, guidata, e ben sovente nemmeno informata.
È inutile dire che la stampa slovena è libera, che l’Edinost può lanciare su terra italiana tutti i gridi che vuole contro l’italianità, servire da coordinatore ed aizzatore della ostilità slovena, e che il giornalucolo della Luogotenenza, nel suo italiano, può vomitare quotidiane ingiurie contro l’italianità che esso chiama «la cricca imperante», inveire contro i regnicoli, insultare l’Italia, deformare i fatti per tentare di suscitare nel più basso volgo l'odio contro le classi intellettuali. La natura di questo libello ufficioso, che non ispira altro sentimento se non il ribrezzo per la maschera d’italiano che si è messo, è rivelata da fatti concreti. Nel 1912, per esempio, questa specie di giornale fu processato per querela di diffamazione sporta da un funzionario di sangue italiano, il quale ebbe l’offerta di una alta decorazione se avesse desististo; non desistè, e forte di prove luminose fece condannare due redattori responsabili; costoro furono immediatamente graziati e, quasi come premio, uno di loro, slavo, i. r. impiegato di dogana, ha avuto il posto di perito revisore al Tribunale. La diffamazione consisteva nell’accusa d’italianità pericolosa all’ordine. Ecco con quali mezzi, mentre alla stampa italiana è messa la pera d’angoscia, si tenta di far credere, con una ignobile parodia di stampa italiana, ad un dissenso nel compatto sentimento della nazionalità.
La fessura d’un dissenso è costantemente cercata sulla corazza dell’italianità. Non possiamo non ricordare la storia del partito socialista triestino, che è stato coltivato dal governo per disgregare la coesione nazionale. In un documento riservato, che abbiamo avuto sott’occhio, il quale traccia la tattica di un partito ufficioso cristiano-sociale, abbiamo letto questa frase: «essendo fallito il tentativo di combattere il partito nazionale col socialismo...». È una confessione esplicita.
Il socialismo, essendo per fondamento avverso alle lotte di nazionalità, si prestava naturalmente ad essere un potente mezzo per sottrarre forze popolari alla lotta nazionale, e venne favorito concedendogli la più ampia libertà. Tutte le conferenze di socialisti furono permesse, Ferri potè parlare di Garibaldi a Trieste, tutti gl'inni furono rispettati se cantati dai socialisti, da quello dei lavoratori a quello di Garibaldi, dalla Marsigliese all’Internazionale. Una gioventù affascinata si gettò nel socialismo come un carcerato verso una porta aperta. V’era libera uscita dalle strettoie anti-italiane; chi voleva respirare, gridare, agitarsi, non aveva che da seguire le bandiere rosse.
Quando il partito fu forte, combattè la sua lotta di classe nell’ambiente immediato, cioè contro la borghesia italiana, il capitale italiano, l’iniziativa italiana, l’autorità italiana, il pensiero italiano. Fu aiutato perchè era utile. L’Edinost scriveva: «I nemici dei nostri nemici sono nostri amici». Commentando la vittoria elettorale sloveno-socialista del giugno 1911, lo stesso giornale scriveva: «Dimostrando che gli sloveni aiutarono i socialisti a conquistare i mandati, lo slavismo ottiene una vittoria. I socialisti ci aiutano qui. Già nella questione della Lega Nazionale Italiana si sono comportati bene...».
Una manifestazione socialista era sempre pronta per neutralizzare una manifestazione italiana, come ad un comando. Per vivere e vincere i socialisti hanno accettato ogni intesa, ogni legame, ogni complicità nell’azione sloveno-governativa contro l’italianità. Essi hanno incluso, nel 1909, dei candidati sloveni alla loro lista nelle elezioni amministrative per rompere la tradizione finora inviolata della italianità della rappresentanza cittadina. In compenso, nelle elezioni politiche del 1911 ebbero i voti slavi, dati con questa chiara motivazione dell’Edinost: «Votammo per i socialisti perchè realmente vogliamo rompere le forze nazionali italiane».
In seguito l’azione socialista, almeno in questa forma, è declinata. La nostra razza può sopportare tutto, meno l’ingiustizia. La persecuzione ad oltranza degl’italiani ha rafforzati i vincoli della solidarietà di sangue anche nelle classi umili. Le ultime elezioni di Trieste sono significative. Ma abbiamo voluto illustrare questa parentesi socialista non solo per illuminare dei metodi di governo che insinuano ovunque il combattimento contro l’italianità, ma anche per contribuire a dissipare opinioni errate fra i socialisti d’Italia intorno alle vere situazioni nelle provincie italiane dell’Austria. Per un certo periodo alcuni di loro hanno portato la forza di una solidarietà al socialismo triestino, la sola che potesse varcare le frontiere, illudendosi sulla universalità dell’idea socialista e sulla fraternità delle razze. La lotta per vivere passa avanti alla lotta per migliorare; quando un popolo combatte per esistere, se è distolto dalla sua battaglia è morto. Prima essere, poi divenire. I problemi nazionali si comprendono poco nei luoghi dove sono risolti; ma i nostri socialisti, per i quali una questione dell’italianità non esiste qui, non possono non sentirla questa santa italianità al pensiero doloroso che col tempo Trieste possa essere Trst, e che il suo popolo non li capisca più e parli sloveno in virtù dello sviluppo di quelle scuole slave che il socialismo ha voluto e di quella potenza slava che il socialismo ha difeso.
Nelle scuole è certamente una delle forze di conservazione della nazionalità, e per questo anche contro le scuole italiane si volge accanita l’ostilità del governo. Conosciamo la storia dell’Università italiana, rifiutata da 65 anni. Quale inezia! Non si sa comunemente che il governo ha rifiutato agl’italiani tutte quante le scuole, di ogni genere. Da quando l’Austria ha soppresso le scuole italiane fondate da Napoleone, il governo non ha creato mai più una scuola italiana. Perchè dovrebbe dare l’Università quando non ha dato neppure un ginnasio? Tutto quello che c’è in fatto d’istruzione pubblica gl’italiani se lo pagano da loro sui bilanci municipali, su quelli provinciali, sui fondi della Lega Nazionale.
Per spegnere una civiltà.
Per legge il governo doveva fondare e mantenere le scuole medie italiane nelle provincie italiane. Esso non vi ha fondato e non vi mantiene che delle scuole tedesche e slave, esclusivamente, nelle quali l’ignoranza dell’italiano è doverosa, specialmente da parte dei professori che dovrebbero insegnarlo. Il governo inoltre sovvenziona quelle scuole elementari slovene che non può mantenere. 50.000 corone che in bilancio si dicono destinate alle «scuole popolari a Trieste», vanno notoriamente alla scuola slava dei Santi Cirillo e Metodio. Quindici maestri che nel bilancio figurano tra il personale delle scuole governative tedesche di piazza Lipsia a Trieste, sono invece slavi che insegnano in scuole private slovene della città. È un sotterfugio per favorire gli slavi senza urtare i tedeschi. Per il concetto che il governo ha di queste funzioni è interessante sapere che i professori governativi prendono il soprassoldo dovuto ai funzionari nei paesi di conquista.
Durante lunghi anni, il governo, pur rifiutando di dare un posto ufficiale alla cultura italiana, e considerandola quasi come inesistente o abusiva, non ha impedito agli italiani di crearsi e di coltivare con le loro forze il loro sistema di scuole, e si è limitato a sorvegliarne l’andamento, a vigilarne rigorosamente i programmi, gli esami, le nomine degl’insegnanti, seguendo la legge in tutto salvo che nella spesa. I municipi e le giunte provinciali italiane non hanno trascurato i bisogni degli slavi, ed oltre alle scuole italiane hanno fondato scuole bilingui e scuole puramente slave in quei territori nei quali la popolazione è prettamente slava. Basti dire che nell’Istria, per cura degl’italiani, funzionano 125 scuole pubbliche croate, e 37 slovene di fronte a 98 italiane, che tuttavia sono le più grandi essendo nei massimi centri e rispondendo alle necessità della maggioranza numerica dei cittadini. È bene ricordare questi principi d’equità per un effetto di contrasto.
Da una decina d’anni la lotta contro le scuole italiane, la cui potenza civilizzatrice paralizza gli sforzi avversari nel campo della educazione, è cominciata. È cominciata con una forma di ostruzionismo. Si rifiuta la nomina di eccellenti professori per le solite ragioni di speciale considerazione. Qualcuno è stato rifiutato perchè la polizia lo accusava di aver partecipato a qualche dimostrazione italiana quando era studente; uno notissimo e benemerito è stato rifiutato perchè appartenne alla Corda Fratres; altri sono stati rifiutati perchè non risultava dai registri parrocchiali che avessero ricevuto il battesimo. Vi sono stati appunto tre professori che si sono dovuti far battezzare per divenire idonei all’insegnamento. Si richiedono i sacramenti come la vaccinazione. Un professore è stato rifiutato tre volte senza nessuna esplicita ragione: per eliminare, per creare imbarazzi nella scelta di nuovi elementi, per paralizzare la carriera a degli italiani in qualunque via, e sopra tutto per rallentare lo sviluppo della scuola media.
Poi si è portato un ostacolo agli studi elementari, con tutti i mezzi, dal non concedere il diritto di pubblicità a delle scuole private italiane, fino ad impedire addirittura ii sorgere di nuove scuole pubbliche. Il numero delle scuole è stabilito dal numero degli abitanti, e una città che, come Trieste, aumenta di 30.000 anime in cinque anni, ha bisogno di aumentare in proporzione i propri istituti scolastici. Negli ultimi cinque anni l’unica scuola nuova che si è costruita a Trieste è slava. La Luogotenenza sopprime dal bilancio comunale le somme stanziate per la creazione delle nuove scuole italiane. Ora è il pretesto delle spese eccessive e dello sperpero, ora quello delle tendenze nazionali, ora quello della incompletezza dei piani presentati. Si spera forse che, la scuola italiana non bastando ad accogliere tutti, quella slava ne profitti. Le scuole elementari italiane rimediano eroicamente con un sistema di turni che raddoppiano la potenzialità di alcuni edilizi scolastici. E si va avanti.
È stato proibito di intitolare a Dante e a Petrarca le due più recenti scuole medie a Trieste, le quali debbono per comando scegliersi il titolo fra i nomi della famiglia imperiale o contentarsi di un numero d’ordine. Ma ben altro pericolo minaccia le scuole medie italiane, il cui incremento è magnifico. Non potendole più soffocare, il governo le reclama. Vuole averle nelle sue mani. Si è accorto improvvisamente di non aver mai fondato una scuola italiana, e invece di fondarne pretende quelle degli altri. I suoi intendimenti non lasciano equivoco. Nell'estate del 1913 il Luogotenente ha mandato al Comune un rescritto, perentorio, minaccioso e insolente come quasi tutte le sue comunicazioni ai magistrati cittadini, dicendo che se la cessione delle scuole medie al governo non era fatta subito spontaneamente, il governo avrebbe agito senza impegnarsi a mantenere in esse l’uso della lingua italiana.
Sterminio senza sangue.
È la guerra di sterminio senza spargimento di sangue. Essa è portata violentemente, con illegalità, con sopruso, con violenza, contro al sentimento, alla cultura, alla lingua, alla libertà, agl’interessi di una nobile nazionalità che si vorrebbe uccidere. Le terre italiane sono additate agli slavi come una preda ed un premio. Si organizzano gite di slavi a Trieste, protette da una mobilizzazione della polizia, perchè esse spargano l’agitazione e la bramosia per il bottino, e non è permessa una gita d’italiani a terre italiane dell’impero stesso. Non solo, ma s’impediscono gite collettive di slavi in quei paesi dove lo slavismo urta non gl’italiani ma i tedeschi. Si è osato a Trieste, e precisamente nel distretto di S. Giacomo, permettere un corteo nel quale, sotto la protezione della polizia, si vedevano le bandiere slave spiegate precedere una bandiera di Trieste velata a lutto in segno di morte. La provocazione più sanguinosa è autorizzata perchè essa è anche un’arma, la quale umilia, deprime, avvilisce, dispera, quando non strappa un grido esasperato di protesta che diviene argomento di persecuzioni materiali e personali.
Pure nel campo essenzialmente economico, che interessa il benessere generale indipendentemente dalla nazionalità, ogni iniziativa italiana urta in uno sbarramento inesorabile. Se urge la costituzione di una banca, di un istituto di credito, di una cassa di risparmio italiana, la autorizzazione non vien concessa. Sono dieci anni che si aspetta l’autorizzazione governativa di una banca rurale italiana. Sono cinque anni che ritarda l’autorizzazione per erigere un istituto di credito ipotecario provinciale del quale la necessità è imperiosa.
Si è negata persino, alla Giunta provinciale di Gorizia, la licenza di erigere una cassa di risparmio, per tema di danneggiare quella slava già esistente. E si è concessa subito la fondazione di una cassa di risparmio sociale slava a Trieste, senza preoccuparsi della cassa di risparmio italiana, la quale ha la garanzia dei Comune e della Camera di Commercio ed offre la massima sicurezza — la slava non dispone che di un capitale iniziale di 30.000 corone. Ogni intrapresa slava è invitata e favorita; una potentissima macchina finanziaria, che trae risorse da tutto il mondo slavo, opera un immane lavoro di accaparramento sulle regioni italiane.
Otto grandi banche slave, con 121 milioni di capitale, sono insediate a Trieste contro la sola grande banca italiana, la Commerciale Triestina, che ha otto milioni. Quattro altre piccole banche slave, che hanno dietro di loro le grandi, portano impetuosamente negli affari la lotta nazionale, sussidiano immigrazioni, non temono di perdere pur di volgere la proprietà italiana in proprietà slava, s’impossessano di terreni, di aziende, di commerci aprendo un credito illimitato per sospenderlo quando la sorte d’un uomo o d’una ditta dipende da un rinnovo. Imprese grandi e piccole si slavizzano così, nel possesso, nel nome, nell’essenza, nel personale. Dietro ogni operazione di banca c’è un manipolo di slavi che aspetta il posto. Avremmo troppo da dire se volessimo illustrare tutto questo immane lavorìo d’interessi che penetra, striscia, circuisce, afferra, snatura. Ma che importa; tutto ciò sarebbe di buona guerra e non avrebbe importanza se il campo fosse ugualmente libero a tutti, se la tutela del governo si svolgesse equamente da ogni lato, se la costituzione di banche e d’istituti italiani non divenisse un problema quasi insolubile, come è un problema quasi insolubile fare qualsiasi cosa che porti l’abborrita etichetta dell’italianità.
Noi avremmo ancora infinite cose da narrare; abbiamo una mole enorme di dati, di statistiche, di note, che illuminano tutta la feroce persecuzione dell’italianità, tutta l’opera violenta di disboscamento che si tenta sul lembo estremo della gran selva italica. Ma crediamo di aver dato già un’idea concreta della situazione delle popolazioni italiane dell’Austria anche tralasciando altri fatti importanti e gravi. Ora, su tutto questo noi crediamo di avere una parola da dire. Una parola come sudditi di una grande nazione, e come italiani.
Domandiamo la parola.
Il trattamento fatto ai cittadini d’Italia in Austria è inammissibile. Il sistema di espulsioni in massa, sul quale abbiamo dato cifre al disotto del vero, e che infierisce «senza riguardo alla vita incensurata dei colpiti, alla loro posizione sociale, alla lunga durata del loro domicilio nello Stato austriaco — sul quale talvolta sono nati, — senza riguardo allo sviluppo dei loro affari, al non avere essi parenti, amici, occupazioni fuori dello Stato, nel quale lasciano famiglia, consanguinei e patrimonio, senza pietà infine per gli ammalati e i minorenni contro i quali si è pure inesorabili» (sono parole di un deputato italiano alla Camera austriaca), questo sistema di bandi, diciamo, non è concepibile fra due paesi qualunque in stato di pace, e tanto meno fra due alleati.
Se si pensa anche agli infiniti arresti di regnicoli, alle balorde accuse di spionaggio elevate comunemente contro di loro e che non reggono neppure davanti al giudizio dei magistrati sloveni, se si pensa alle inquisizioni, alle perquisizioni, al carcere preventivo che accompagnano ogni equivoco, se si può dire equivoco, della polizia, se si pensa al sistematico, costante rifiuto di patenti per l’esercizio di qualsiasi professione, fatto contro le leggi dell’umanità e contro quelle internazionali, se si pensa ai «motivi di speciale considerazione» che impediscono a migliaia di concittadini di lavorare, di vivere, di esistere in Austria dove li conduce il naturale flusso dei loro affari, noi ci sentiamo offesi nella dignità, nel diritto, nell’interesse.
La suscettibilità giapponese s’impenna contro gli Stati Uniti per fatti che hanno meno valore di questi. La California non tratta l’emigrazione gialla come sono trattati i sudditi d’Italia oltre i confini orientali.
Perchè si fa questa guerra feroce alla italianità?
La ragione non si trova facilmente, il pretesto sì. Un giornale conservatore viennese ha stampato che «nessuno dei nove popoli che abitano lo Stato austriaco gode meno simpatie oneste e sincere degli italiani, perchè il loro passato nella storia e nella politica rispetto alla monarchia continua ad esercitare tale influsso da non permettere che si applichino per essi le teorie dell’equiparazione civile e linguistica come per gli altri cittadini dello Stato». La posizione degli italiani nella Monarchia austro-ungarica vi è fedelmente descritta; essi non hanno i diritti degli altri popoli per colpa dell’influsso della loro storia. Ecco la grande, perenne accusa, che si ripete contro di loro, e che li pone al bando. In altre parole essi sono imputabili d’irredentismo.
Senonchè l’ostilità del Governo contro l’italianità nelle provincie italiane dell’Impero è cominciata assai prima di ogni possibilità d’irredentismo. Quando l’Austria sopprimeva le scuole italiane aperte da Napoleone e le sostituiva con scuole tedesche, quando proibiva a quelle popolazioni di mandare i loro figliuoli alle università di Padova e di Pavia, che pure erano università austriache, quando dal 1824 al 1834 respingeva sei domande per l’istituzione di un ginnasio italiano a Trieste, quando dal 1830 al 1838 rifiutò di spendere a Trieste i denari del fondo scolastico triestino, quando alle domande ripetute di scuole italiane fatte nel 1838, 1839, 1840, rispondeva erigendo il ginnasio tedesco ed obbligando la città a contribuire alla spesa, l’Austria faceva già una politica anti-italiana, e l’irredentismo era al di là di ogni profezia.
E anche dopo, per lunghi anni, non c’è sacrificio che Trieste non abbia fatto per disperdere le prevenzioni ostili del governo, per vivere in pace; esagerava il gesto come chi sa di essere sospettato, decretava la cittadinanza d’onore a Radezski, erogava fondi pubblici a sollievo delle finanze dello Stato, faceva manifestazioni pubbliche di fedeltà all’impero. A che cosa le giovò? Venne il 66 e la politica slavizzatrice s’iniziò, piena di rancore fresco contro l’italianità.
Una offesa alla umanità.
Lo svolgimento di questa politica, che è arrivata ora al parossismo, abbiamo narrato.
Il governo scaccia gli italiani dalle carriere pubbliche, li scaccia dal lavoro degli arsenali, come a Pola, li scaccia dalle navigazioni governative, come al Lloyd, li scaccia dalla cosa pubblica equiparandoli a nemici dello Stato, ed essi possono sentirsi inalterabilmente amici dello Stato? Se il governo tratta le provincie italiane da paese di conquista, ne calpesta le prerogative, ne insidia i diritti, se fa di tutto per essere brutalmente straniero, recisamente straniero, come può non finire per apparire governo straniero alla coscienza del paese?
E l’irredentismo, che dovrebbe giustificare questa politica di soffocamento, è denunciato nelle più innocenti manifestazioni d’italianità. E’ cercato con una sensibilità morbosa in una parola, in un gesto, in un colore, in un motivo musicale. Agli occhi dell’autorità esso s’identifica con tutto quello che è italiano. Con meno livore, con un po’ di serenità, tutti i piccoli fatti che ora bastano a compromettere una intera vita, apparirebbero nel loro giusto valore come delle pure affermazioni di nazionalità, scaturite come scintille dall’urto.
Un ben diverso trattamento gl’italiani meritano e debbono avere. Questa lacerante ingiustizia non può continuare. L’italianità non ha bisogno, come lo slavismo, di un’azione speciale, favoritrice, travolgitrice dei poteri, per andare avanti, e non domanda niente. Basta a sè stessa. Che sia lasciata vivere la sua vita, senza insidie, senza soprusi. L’autorità, con la sua immensa possanza, rimanga tutrice imparziale. Non si chiede di più. Lasci le nazionalità alle loro forze naturali.
Il programma dell’annientamento dell’italianità, a beneficio di una razza inferiore, offende non soltanto noi, ma l’umanità. I tesori dell’arte italiana, i segni della gloria italiana, i ricordi della storia italiana profusi su quelle terre, formano un insieme vivo e palpitante per le tradizioni che li circondano, per l’amore che li custodisce, per la favella che risuona intorno a loro, per il sentimento che vibra nella folla, per tutte quelle cose che sono la continuazione della vita antica e che dànno un significato alle pietre, un’eloquenza ai muri. Per la bocca del popolo ogni traccia del passato narra la sua leggenda. Gli uomini parlano dei monumenti e i monumenti parlano degli uomini. Con i secoli fra la terra e i suoi figli è nata una comunanza profonda. L’anima del popolo è piena della sua terra come la terra è piena di generazioni. La polvere che si calpesta ha vissuto e parlato la stessa lingua che si ode oggi. Ed è a questa italianità che si attenta. Si vuoi troncare una storia come si tronca una testa. I monumenti dell’italianità, così viventi, dovrebbero divenire delle mute pietre sepolcrali nel mondo slavo, e, come nella Dalmazia croatizzata, si vorrebbe demolire il più grande, il più prezioso, il più fulgido monumento del popolo: la sua anima.
Le sorti dell’italianità non ci possono essere indifferenti; e non può lasciarci insensibili lo spettacolo magnifico dei sacrifici e degli sforzi che popolazioni italiane unanimi sopportano per rimanere italiane.
Certa stampa viennese, che non prendiamo in considerazione per quello che vale ma perchè riporta delle idee correnti nei circoli predominanti, osa paragonare la lotta contro l’italianità alla nostra azione coloniale contro gli arabi. L’intenzione è insolente, e possiamo considerare che quelle genti che più affettano di considerarsi superiori a noi, sono state in passato i beduini dell’italianità. Non badiamo all’insolenza, ma alla sostanza del paragone. Noi vorremmo bene che il criterio della nostra colonizzazione prevalesse nella politica verso l’italianità. Vorremmo vedere la popolazione italiana pacifica, rispettata nella sua lingua, nei suoi usi, nelle sue autonomie, nella sua giustizia, nelle sue scuole, nella sua proprietà, nelle sue prerogative, come noi rispettiamo i nostri sudditi africani sottomessi.