Stranieri, Ovunque.
La 60esima edizione della Biennale Arte è già tutta nel suo titolo Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Due parole potenti e “scandalose” che spalancano scenari attuali e universi possibili, al cui orizzonte si compone la linea di pensiero curatoriale, nitida nel colpo d’occhio della distanza, vibrante di contrasti complessi se osservata più da vicino.
Adriano Pedrosa firma per La Biennale una Esposizione che riflette la sua personale attitudine di studio e ricerca su cui non pesa il pregiudizio del già conosciuto. Dove la vertigine dell’ignoto è parte integrante del processo fruitivo, e lo sperdimento si fa leva efficace per individuare nuovi punti cardinali.
Proprio la bussola è importante per comprendere questo cambio di paradigma. Pedrosa è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dal Sud America, e quindi sa bene che gli stessi punti cardinali sono forme simboliche antropizzate, col Nord in testa – con tanto di comodo cappello – e il Sud ai piedi, tenuti scalzi manco a dirlo.
Straniero tra gli stranieri è – a piedi scalzi – il viandante in cammino tra i tratturi più impervi, il mendico nei cui stracci sovente si nasconde un Dio, quel nume sconosciuto a se stesso da cui gemma il rinnovarsi delle stirpi. È Enea che si lascia alle spalle il fuoco di Ilio per fondare – da straniero – una civiltà dell’universale dove nessuno più è un barbaro ma un cittadino. Ed è pertanto che il principio guida della selezione degli artisti privilegia chi non ha mai partecipato alla Esposizione. Illuminando il percorso dei Modernismi al di fuori dell’anglosfera. Presentando geografie dimenticate e ai confini del dettato vigente, seppure ben chiare sul planisfero. Dando consistenza a vuoti che di fatto non lo erano - un po’ come accade nelle sculture di Rachel Whiteread - e restituirsi, infine, al pensiero aurorale, quella nostalgia delle cose – accade nel linguaggio, nell’inverarsi del flatus vocis – che non ebbero mai un cominciamento.
Con un esplicito riferimento al Manifesto antropofago di Oswald de Andrade, il curatore spiega come i Modernismi del Sud Globale abbiano dovuto cannibalizzare le culture post coloniali egemoni per affermarsi. Una forma di resistenza artistica che – nel caso brasiliano – richiama il rituale cannibalico pre-invasione del popolo Tupinambá. Il dipinto di Tarsila do Amaral che spinse de Andrade a scrivere il suo Manifesto era intitolato appunto Abaporu, che in lingua Tupi significa “uomo che mangia la gente”. E del mangiare – del nutrirsi – se ne fa radice sacrissima, non certo antropologia, come nel codice mediterraneo a noi familiare dei due conturbanti virgulti, ovvero Dioniso e poi Gesù, il Nazareno. Due rappresentazioni della resurrezione del “Dio ucciso”, due distinti banchetti cui partecipa gente che mangia altra gente, come Dioniso – il figlio che Zeus partorisce dal proprio polpaccio, ridotto in lacerti, masticato e inghiottito dalle Menadi – e come Gesù, il figlio di Maria, la Prescelta, eucaristicamente fatto ostia nella liturgia, presenza nel rito e dunque promessa propria dell’Eterno per tramite del suo stesso corpo, cibo per tutti.
In questa edizione la Biennale Arte presenta un nucleo contemporaneo e uno storico, con un’ampia presenza di artisti italiani della diaspora del XX secolo, i cui lavori sono esposti su i glass easels progettati da Lina Bo Bardi, per il MASP di San Paolo del Brasile. Per la prima volta un collettivo artistico indigeno dell’Amazzonia – MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) – si prende la scena, con un intervento monumentale sulla facciata del Padiglione Centrale. Settecento metri quadri di visioni sacre mediate dal rituale dell’ayahuasca, un’esperienza questa – altrettanto sacrale – che il Vecchio Continente ha esperito per tramite di scrittura e di vissuto con gli Annäherungen di Jünger.
E sempre due sono i fili che percorrono la selezione del curatore: la volontà esplicita di focalizzarsi su opere che usano il linguaggio del tessile; e sul legame di sangue che collega diversi degli artisti in rassegna. Un ritorno dunque ai tempi dilatati della res extensa e dei rapporti umani viscerali, intesi come scrigno di tradizione e trasmissione di conoscenze, in un’epoca dominata dall’immateriale e dalla spersonalizzazione di contenuti e forme.
Questa edizione della Mostra ospita frammenti di bellezza marginalizzata, esclusa, punita, cancellata da schemi di geo-pensiero dominante. Così i temi cogenti della Mostra di Pedrosa, il diverso, lo straniero, il viaggio, l’integrazione, riverberano nelle acque sempre calme e sempre nuove della città lagunare. Ancora una volta Venezia - nei secoli culla dolce di conoscenza e comunicazione tra popoli, etnie, religioni - è la piazza naturale da cui smistare nuovi punti di vista e Fare Mondi - per dirla con un lessico qui di casa.
La città che ben 129 anni fa ideò la prima Biennale Internazionale d’Arte, rinnova le sue promesse di curiosità e amore di conoscenza. Le stesse che spinsero Marco Polo - di cui proprio nel 2024 si celebrano i settecento anni dalla scomparsa - a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose. Integrandosi, lui straniero in quelle terre, in virtù di uno scambio sinceramente umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie, fogge e vitalità. E tanti paesi avevano a Venezia i Fondeghi - dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi - depositi della loro manifattura e del loro ingegno. La Biennale - con i suoi Padiglioni Nazionali, le opere, i visitatori e gli artisti da ogni parte del mondo - era già lì, nel destino della città. Di fatto, per Venezia la diversità si è posta sin dall’inizio come condizione imprescindibile di normalità. In un processo specchiante e di confronto con l’altro da sé, mai percepito in termini di negazione.
Un viaggio mentale e fisico di undici mesi quello di Pedrosa, fra Cile, Messico, Argentina, Colombia, Porto Rico, Guatemala, Kenya, Zimbabwe, Angola, Sudafrica, Singapore, Indonesia, Medio Oriente. Poi, infine, il ritorno in laguna per ricostruire qui la sua personale Favola di Venezia. Ovvero la sua Sirat al Bunduqiyyah. Unica - Venezia - tra le città europee ad avere sin dall’anno mille un suo nome arabo. La cui costellazione di significati fa da prodigioso controcanto alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte. Bunduqiyyah: diverso, meticcio, mescolanza di genti, straniero.
Stranieri, Ovunque.